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Inserimenti scolastici ordinariamente folli

Pubblico l’esperienza di una mamma e di suo figlio durante l’inserimento alla scuola materna . Mi è stato chiesto di tutelare la loro privacy, quindi il testo è anonimo. Per molte famiglie l’inizio della scuola si sta avvicinando a grandi passi:  settembre è alle porte . Ricevo svariate testimonianze simili e non mi stupisco più di nulla, spero perciò che questo testo possa aiutare chi legge a riflettere su quello che stiamo facendo ai nostri figli, più o meno inconsapevolmente, inserendoli come bulloni in quella macchina chiamata sistema scolastico. 

Nicola ha sette anni , ora è un homeschooler, la sua mamma è russa, ma vive ora in Italia.
Facendo un salto nel passato, questa donna, ci racconta la sua personale esperienza all’asilo nido. I suoi ricordi sono vividi, attuali: “Sono stata all’asilo solo uno o due giorni. Era lo stesso edificio dove lavorava mia madre. Ricordo di aver pensato – Bene, così starò vicino alla mamma – e invece no, non è stato così. Le maestre hanno proibito alla mia mamma di venire a trovarmi. Da subito mi è sembrata una cosa assurda. Si, si, mi sembrava qualcosa di assurdo. Perché non potevo vedere la mamma, se lei era vicina? Non mi ricordo nulla dei giochi e delle attività che venivano fatti, nella mia mente è fissato solo un momento: quando mia madre è venuta a trovarmi e mi è sembrato di rivedere il sole. Le maestre hanno protestato nel vederla giungere ed io ho gridato – Ma è la mia mamma! – come potevano non capire? Essi erano grandi, adulti, dovevano capire il mio bisogno… Mi sono ammalata   quasi subito, allora la mia famiglia ha deciso di non mandarmi più. In quel momento ho pensato: meno male !”.

Anni dopo questa madre si trova a rivivere la stessa esperienza, ma questa volta nelle vesti di genitore, con il suo piccolo di tre anni. 

“Non so perché, ma pensavo che in Italia l’asilo fosse diverso. Tutte le mamme attorno a me parlavano dell’asilo con grande entusiasmo – Finalmente ha imparato a stare senza di me, mio figlio diventa sempre più indipendente! – quando le ascoltavo sentivo un certo disturbo. Era un qualcosa che mi dava fastidio dentro, ma non sono stata abituata ad ascoltare l’istinto e quindi trascuravo l’impressione . Noi genitori ascoltiamo la tata della trasmissione, la psicologa alla televisione, la vicina di casa impicciona o ancora la zia professoressa. Tutti ci ripetono che la socializzazione è molto importante, che dai tre anni il bambino deve stare con i propri coetanei.  Non ero convinta – …e i virus? – azzardavo io – Più si ammala adesso, meno si ammalerà dopo! – rispondevano loro.

Gli amici dicevano che i loro bambini si divertivano da matti alla scuola materna. Io volevo che Nicola si divertisse da matti come gli altri e che non crescesse selvaggio. Eh, eh, tutti sanno che quando un bambino ha un legame morboso con la propria mamma, soffrirà – per forza – del complesso di Edipo, che non si sposerà mai e che quindi non mi darà dei bei nipotini (!!!). Per evitare tutto ciò bisognava quindi mandarlo all’asilo a tre anni, allora io e mio marito abbiamo deciso di fare questo passo. Non so perché, ma ero così fiduciosa che non ho neanche chiesto come si sarebbe svolto l’inserimento. Certamente con i genitori, pensavo…

Ecco arrivare il primo giorno di scuola – Avete portato le carte? – mi chiede la maestra senza neanche guardare il bambino. Una volta controllati i documenti – Bene, lo lasci qui e vada via – come mi sono domandata io? La maestra non gli aveva nemmeno chiesto il nome. Cerco di spiegare che Nicola non è mai andato all’asilo nido, che non è abituato a separarsi dai genitori così – Signora, tutti piangono, è normale, lo lasci qui e torni tra un’ora – e mentre mio marito insisteva nel lasciarlo, io cercavo di mettermi d’accordo con il bimbo.

La maestra intanto lo tirava per la mano, ma il bimbo scappava in tutte le direzioni. Mentre lei si avvicinava, lui cercava di colpirla con il piede, ma (purtroppo) non ci riusciva bene. Lei cercava di afferrarlo rigidamente, ma ho sbottato – Giù le mani – prendendolo, piangente, in braccio. Mi sembrava di vivere in un film, la situazione era agghiacciante, non potevo crederci. Intanto era arrivata la responsabile che voleva spiegarmi l’importanza di tranciare subito la relazione, per fare capire al bambino che il distacco era inevitabile . Sono così fuggita, affermando che avremmo provato un altro giorno.

Decido così di provare un approccio dall’esterno e un giorno, dopo la merenda, io e Nicola andiamo a passeggiare vicino a quella gabbia che è il parco della scuola per vedere cosa fanno gli altri bimbi. Il gruppo dei piccoli era appena uscito per giocare. Una bimba triste ci vede e si avvicina alla rete, poi vi si attacca con le manine e inizia a piangere disperata. In seguito arrivano altri due bambini e ci ritroviamo a guardare tutti e tre loro piangere disperati.  Nicola mi guarda come per dire – Mamma, sei matta? – infatti, poco dopo, arrivano le maestre arrabbiate – Guardi cosa ha combinato! Lo lasci per l’inserimento, oppure vada via! – noi veloci andiamo via.

Dopo qualche vivace discussione con mio marito, concordiamo nel riprovare a gennaio. Arrivato gennaio, chiediamo a Nicola se vuole andare all’asilo, lui si rifiuta e noi accettiamo la sua scelta. Proviamo invece a frequentare un gruppo di preparazione all’asilo nido. In quella sala si facevano dei giochi assieme con i genitori che rimanevano presenti inizialmente per poi lasciare i bambini soli a poco a poco.  I piccoli avevano dai sei mesi a un anno e mezzo, Nicola sembrava un gigante.

Mi pareva assurdo fare dei giochi di gruppo con dei bambini così piccoli. Una mamma insisteva che sua figlia di nove mesi ascoltasse la canzoncina fino alla fine, ma la bimba scappava, così la mamma la riportava al posto e poi lei scappava ancora. Tra me e me ridevo. Nicola mi diceva – Io non canto – allora rispondevo – Come vuoi! – ma questo atteggiamento indispettiva le maestre. Secche mi riprendevano – Non vogliamo forzare nessuno, ma così non imparerà mai a seguire le regole! – dopo poco ci siamo stufati di quel clima da galera e abbiamo smesso di frequentare il gruppo.

L’anno seguente, a settembre, spinta da amici e parenti, ho deciso di rimandarlo alla materna e ho chiesto fiduciosa un colloquio con il preside della scuola . Dopo aver spiegato il mio problema ho chiesto di poter essere presente all’interno della classe per qualche giorno durante l’inserimento. Lui, un uomo all’ultimo anno di lavoro prima della pensione, con lo sguardo annoiato, mi ha risposto – Non possiamo permetterlo, signora c’è il regolamento da seguire. In più credo che il bambino abbia bisogno di questo stress per crescere –  mamma mia, che ignoranza e che indifferenza – ho pensato tra me e me. Avere il sangue freddo non è mai stato il mio forte – Quale pedagogista afferma ciò? – chiedo – Sono io a dirlo – risponde lui. Così, mentre esco dall’ufficio arrabbiata, mio marito rimane a spiegare che sono stressata e non tanto normale, mentre il preside gli racconta che anche i suoi bambini piangevano all’inserimento e che anche i suoi nipotini hanno pianto, e che i suoi futuri pro-nipoti piangeranno, c’est la vie…

Non demordo e tramite una psicologa cerco di ottenere una raccomandazione scritta affinché Nicola possa avere un inserimento soft. Penso che un’esperta possa convincere il sistema a farmi stare qualche giorno con lui a scuola. Riusciamo così ad avere il permesso ad entrare nella classe e a mostrare a Nicola che i bambini si stanno divertendo, con la sicurezza di averci al suo fianco. Il bambino prova, ma con grande titubanza.

Un giorno lo porta il papà, lasciandolo questa volta fino alle 12 e di ritorno mi dice che ha pianto solo un po’. Il mio istinto grida di tenerlo a casa, oso chiedere – Vuoi andare ancora? – e ricevo in cambio un si, ma senza alcun entusiasmo.

Non piangeva, non protestava più. Sembrava tranquillo, pareva essere tutto a posto. A dire il vero, non ero sincera con me stessa, sapevo che era infelice, ma cercavo di convincermi del contrario.
Del resto, se il bambino non si lamentava apertamente, potevo avere la coscienza a posto, o no?

Di recente mi ha raccontato – Mamma, all’asilo io guardavo l’orologio, ma la lancetta si muoveva lentamente e mi veniva da piangere, cercavo di non farmi vedere – a cosa è servita tutta questa sofferenza?

Per assecondare il mito della socializzazione?

Per tenere calmi i vicini rompiscatole?

Per omologarsi?

Un sacrificio alla società. Mio figlio, per calmare noi, i suoi genitori, faceva finta di essere a posto. Aveva smesso di sperare.

Oggi molti mi consolano – Dai, non è successo niente, non ti preoccupare, non è morto nessuno – invece no, so che non è così semplice.

E’ stato un vero e proprio tradimento da parte nostra. Nicola ha capito che noi adulti siamo fragili, insicuri e paurosi, lui ci ha perdonato, ed è stato più forte di noi.

Rileggo questa mia storia e penso a quanti problemi, preoccupazioni inutili e rimorsi potevo evitare se avessi creduto in me stessa piuttosto che agli esperti di turno”.

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