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La scuola che vorrei

La scuola dei desideri è realmente esistita a Rozzano in via dell’Orchidea durante gli anni che seguivano la contestazione del ’68.
Non vi parlo di una scuola privata sperimentale o di una realtà isolata  di qualche villaggio tra i monti, la scuola dei desideri era la scuola elementare statale di Rozzano, una cittadina alle porte di Milano.
Cosa rendeva questa scuola talmente speciale da farla rivivere ancora oggi nei racconti degli ex studenti ora quarantenni? Pedagogisti famosi, studenti con un quoziente intellettivo più alto del normale, infrastrutture futuristiche, materiali ricercati e costosi? No, nulla di tutto questo.

Una serie di fortunate coincidenze e la grande voglia di ricominciare, reinventare e collaborare di un gruppo d’insegnati alle prime armi ha dato vita a questa scuola diversa.

Ascoltiamo il racconto di Angelo Vigo , maestro di scuola elementare, docente universitario presso la facoltà di Scienze della Formazione Primaria, scrittore e molto altro.

La scuola di Rozzano non era assolutamente una scuola “ speciale ” o diversa dalle altre. Era “ speciale ” solo per noi e unica solo perché era la nostra . C’era un gruppo di insegnanti giovani e motivati, casualmente diventati amici e con una visione simile su come poteva essere la scuola, l’insegnamento e il rapporto con gli alunni. Tutto qui. C’erano però gli ingredienti indispensabili per fare della scuola un ambiente positivo di crescita per tutti: per gli alunni , per noi giovani insegnanti e (perché no?) anche per le famiglie stesse. Insomma, per dirla in modo semplice: “ credevamo ” in quello che facevamo e lo facevamo con un certo piacere .

C’erano energie . Non solo perché eravamo giovani ma anche perché eravamo convinti che si potesse fare una scuola più interessante e che a scuola si doveva sì faticare, ma per cose interessanti e utili.
C’era cultura . Non solo perchè eravamo tutti ancora freschi di studi, ma perché eravamo convinti che un buon insegnante dovesse leggere libri, andare a teatro e al cinema, ascoltare musica, ecc.
C’era passione. Non solo perché eravamo giovani ed era facile farsi prendere dall’entusiasmo, ma perché portavamo a scuola le nostre passioni e le condividevamo con i nostri alunni.
C’era creatività e fantasia.
C’era divertimento.
C’era impegno.
C’era il piacere di fare le cose bene.
C’era rispetto e reciproco riconoscimento di ruoli, funzioni e competenze.
C’era disponibilità ad aiutarsi.

Non sto mitizzando un periodo. Sto solo descrivendo quello che c’era o che si cercava di fare. E che per diversi anni abbiamo fatto.

Intorno c’era tutto quello che c’è ancora oggi: burocrazia, diffidenza, ambiente sociale difficile, colleghi con una concezione della scuola completamente differente, scarsità di mezzi e di risorse.
A quei tempi
mancavano addirittura le aule e c’erano i doppi turni: a rotazione si andava a scuola al mattino oppure al pomeriggio e si doveva condividere l’aula con altri insegnanti e con altri alunni.
Forse è tutto questo insieme di cose che rende così vividi i ricordi degli ex alunni di allora e i nostri. In realtà credo che molto semplicemente in quegli anni fu possibile
sperimentare una scuola nella quale si credeva , una scuola diversa da quella tradizionale che era senza tutte quelle cose che sono state elencate prima.

C’era, e c’è ancora, una scuola senza energie, senza cultura, senza passione, senza creatività, senza fantasia, senza divertimento, senza piacere, senza rispetto, senza riconoscimento di ruoli e funzioni e senza disponibilità ad aiutarsi. Ma, ovviamente, c’era e c’è ancora una scuola completamente diversa . Ma è nascosta. Non è la scuola ufficiale. Ci sono maestri eccezionali, motivati, appassionati, creativi, competenti. Ma lavorano quasi di nascosto, umilmente, senza mettersi in mostra. Sono i maestri che tra circa quarant’anni potrebbero incontrarsi con i loro ex alunni e ricordare piacevolmente l’esperienza di scuola. Sono i maestri e le maestre che ogni giorno combattono non tanto contro questo o quel ministro, contro questa o quella circolare, ma contro l’idea che la scuola debba per forza essere un luogo dove si imparano cose banali, dove si sta fermi e seduti al banco per la maggior parte del tempo, dove tutto quello che è l’esperienza quotidiana della vita debba essere lasciata fuori.

Una scuola senza cultura, senza passione, senza rispetto. Una scuola senz’anima, zeppa di verifiche, di controlli, di disposizioni, di regole, di abitudini difficili da cambiare. Una scuola dove si “deve” andare, non dove “vale la pena” andare. Una scuola dalla quale fuggire ogni giorno con un grido liberatorio, appena suona la campanella. Il grido di liberazione che i bambini fanno spesso all’uscita da scuola (e ancora di più ogni anno, all’uscita dell’ultimo giorno di scuola) è per me come un pugno nello stomaco. Da che cosa si stanno liberando questi bambini? Li abbiamo tenuti prigionieri? Abbiamo loro rubato 4, 6, 8 ore della loro vita ogni giorno? Li abbiamo fatti soffrire?
Possibile che la scuola debba essere un’esperienza di questo genere?

Ecco cos’era l’esperienza dei miei primi anni di insegnamento che ora un’ex alunna ricorda con piacere: una scuola dalla quale non solo non si voleva fuggire, ma nella quale valeva la pena andare, sia come alunni sia come insegnanti. Una scuola piacevole, non facile. Una scuola faticosa, non opprimente. Una scuola dove il mondo entrava, con tutti i suoi problemi e le sue contraddizioni. Una scuola dove si poteva riflettere su tutto. Dove “insieme” ai genitori si poteva davvero decidere cosa fare. Fare teatro? Fare pittura? Vedere un film? Organizzare un’uscita? Se ne parlava insieme e nessuno diceva sì o no senza motivazioni appropriate. Nessuno si nascondeva dietro disposizioni, regolamenti o mancanza di fondi. Non vinceva la “situazione problematica” esistente. Vinceva la determinazione nel voler fare ciò che tutti ritenevamo utile e necessario.

Oggi è persino facile parlar male della scuola e forse c’è chi fa di tutto perché si parli male della scuola e degli insegnanti. Ma davvero si può fare a meno della scuola? Forse possiamo cambiarle un po’ la forma e l’organizzazione, ma la possibilità che per qualche ora al giorno dei bambini si ritrovino insieme e, nel rispetto di regole condivise, sotto la guida di un adulto attento e competente facciano esperienza del mondo e degli strumenti necessari per meglio indagarlo e rappresentarlo, non mi sembra una cosa facilmente eliminabile. E non è poi così facile essere un adulto capace di guidare i bambini nella conoscenza del mondo e degli strumenti necessari per capirlo. Può sembrare facile, ma solo se non si riflette a fondo su cosa, come e quando un bambino può imparare.
“Non si crea la conoscenza; si possono solo creare le condizioni perché essa avvenga”,
diceva Von Humbolt. Ma non è neppure facile creare queste condizioni e la formula che consenta l’organizzazione ideale di quel momento di formazione e istruzione dei bambini che abbiamo chiamato “scuola”, forse non esiste.
Non penso che valga la pena essere contro la scuola. Penso che valga la pena essere contro la scuola inutile. Si può creare un vasto movimento d’opinione perché la scuola torni ad essere utile, ma naturalmente bisognerà precisare: utile a chi?

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